Creativi culturali: l’importanza di “fare bene”
Fonte: www.corriere.it
Ci sono sempre più persone che mettono sostenibilità, affidabilità e qualità al primo posto. I ricercatori di tutto il mondo stanno studiando per capire fino a che punto saranno in grado di cambiare il pianeta in meglio.
Il risultato? Ne parliamo con Enrico Cheli, il sociologo che per primo ha seguito il fenomeno in Italia.

L’attore Leonardo Di Caprio ha raccontato di essere cresciuto con una raffigurazione della Terra, Il giardino delle Delizie, del pittore olandese Hieronymus Bosch appesa sopra al suo letto. Un dono di suo padre che: «È stato un’ispirazione e una promessa di futuro», ha spiegato il divo premio Oscar, messaggero delle Nazioni Unite per il clima, da anni impegnato in prima linea in difesa del pianeta e dei diritti umani.
Ma non è necessario essere una star per avere una sensibilità spiccata e rimboccarsi le maniche. Esiste, infatti, una buona parte della popolazione mondiale che agisce ogni giorno con consapevolezza, nell’ottica di una produzione, un consumo e uno sviluppo sostenibili. Il sociologo statunitense Paul H. Ray e la psicologa Sherry Anderson hanno deciso di chiamarli creativi culturali, una definizione nata alla fine di un’indagine svolta tra il 1986 e il 2008 sugli stili di vita degli adulti contemporanei, i cui risultati sono andati ben oltre le consuete suddivisioni accademiche (“tradizionalisti” e “moderni”). Enrico Cheli, docente di Sociologia delle relazioni interpersonali e Psicologia della comunicazione all’Università di Siena, autore, con il medico e ricercatore Nitamo Montecucco, dell’omonimo libro italiano, li descrive così: «Ci sono persone che si riconoscono in una nuova cultura emergente che guarda alla sensibilità ambientale, alla qualità della vita, ai diritti umani, alla crescita personale. Sono tutti temi abbastanza recenti, che si sono affacciati dagli anni ’60 del Novecento in poi. Le persone che si riconoscono in questi valori, ma che in realtà in qualche misura li creano, sono state chiamate per questo “creativi culturali”: loro stessi, appunto, sono artefici di una nuova cultura».
Dalle ricerche sociologiche svolte in Italia, in Francia, in Usa e Giappone, risulta che le persone ricettive a questi contenuti sono tra il 60 e l’80 per cento dell’intera popolazione adulta, e tra questi più di un terzo risulta particolarmente attento nei consumi e sensibile all’ambiente. Che cosa sorprende di più di questa indagine? «I numeri alti» prosegue Enrico Cheli «e il fatto che queste persone non abbiano una collocazione precisa e quindi non siano mai stati individuati dalle ricerche tradizionali». Una cultura trasversale che, nello stesso momento, in varie parti del mondo, sta portando avanti uno stile di vita che influisce anche sull’economia: dalla scelta di prodotti che diano maggiori garanzie di qualità, sicurezza, affidabilità e che siano sostenibili, non solo da un punto di vista ambientale ma anche sociale ed economico, fino alla disponibilità di condividere il proprio tempo e le proprie conoscenze e competenze con chi ne ha più bisogno, semplicemente per il bene comune.
Il filosofo francese Patrick Viveret sostiene che gli ambasciatori di questa cultura non abbiano, in realtà, la consapevolezza di formare un grande gruppo: si percepiscono come una minoranza. E in Italia? «Il fenomeno dei creativi culturali non presenta disparità significative a seconda dei Paesi esaminati» assicura Enrico Cheli «All’estero sono solo un po’ più coerenti. In parte ciò si deve alla situazione economica e culturale del nostro paese». Ad esempio: fare scelte di consumo responsabili e sostenibili può costare di più dell’approccio “usa e getta”; così come fare un percorso di crescita personale richiede un maggiore investimento rispetto allo stare davanti alla tv. E aggiunge: «Dobbiamo sempre ricordarci che l’Italia è uno dei paesi avanzati a più arretrato reddito». In sostanza, gli italiani sono al momento creativi culturali più nelle intenzioni che nei fatti.
Ma è proprio sulla minore sensibilità della nostra politica rispetto ai temi emergenti che Cheli accende una riflessione. Perché, anche se una grande parte della società vorrebbe fare leva sul cambiamento ed esistono realtà che già operano in questo senso, preoccupandosi di creare le condizioni e gli strumenti necessari, chi ha potere decisionale non lo fa: «Dalla crisi del 2011 in politica si è imboccata sempre più spesso la strada dell’emergenza, un criterio che di fatto ha tagliato via tutte le altre questioni. Presi dall’ossessione del negativo da risolvere, si è perso di vista che bisogna sviluppare il positivo», osserva il sociologo.
Nel frattempo, la creatività culturale si diffonde dal basso, contagiando anche il mondo delle imprese: «Qualunque persona o azienda in grado di rispondere a un’esigenza di qualità della vita, di sostenibilità e responsabilità sociale può considerarsi promotrice di un cambiamento positivo della società». Dalla grande azienda che decide di produrre motocicli meno inquinanti e più sicuri fino al libero professionista che sceglie una professione emergente di supporto – anche sociale – come quella del “counselor”, è chiaro che chi predilige il bene comune, la qualità e la sicurezza della vita delle persone e del pianeta può considerarsi un creativo culturale.
Certo, a tutt’oggi: «I creativi culturali, anche se numerosi, rappresentano una forza sociale ed economica ancora troppo frammentata per influire in modo apprezzabile sulla direzione del nostro futuro globale» spiega Nitamo Montecucco nel libro-manifesto «è quindi necessario che vengano create reti di interconnessione tra le componenti di tale forza, così da raggiungere una massa critica di persone sufficiente a catalizzare l’inizio del worldshift». Un cambiamento mondiale che potrebbe diventare, attraverso momenti di consapevolezza e di condivisione delle conoscenze, «l’inizio della civiltà planetaria». è questa la vera, grande sfida evolutiva del nostro tempo. A noi la scelta di farne parte.
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